sabato 14 marzo 2020

Fare la nostra parte

Coronavirus. Una parola che fino a qualche mese fa non immaginavamo nemmeno, presi com'eravamo ad aspettare l'avvento di un 2020 che la nostra immaginazione voleva pieno di novità e sorprese. E invece ecco l'inizio di questo nuovo decennio all'insegna di un'emergenza che sa tanto di fantascienza, fra strade deserte e supermercati che mai erano stati luoghi così di moda.


La nostra quotidianità è stravolta in quelle cose che prima davamo forse troppo per scontate: niente partite di calcio, niente pizza con gli amici, niente chiacchiere al bar. Ma soprattutto niente abbracci, mascherine sul volto, disinfettanti a peso d'oro e un unico grande motto: #stateacasa

Il mondo, insomma, sembra essersi fermato. Tranne per chi sta affrontando il virus in prima linea, ovviamente. Chi in corsia, chi tramite il volontariato, chi nelle stanze dei bottoni a prendere decisioni: a loro deve andare il nostro più grande ringraziamento. Per loro, infatti, il mondo sta andando a mille all'ora e ogni secondo è prezioso in questa battaglia. 

E noi, invece? Per noi, che lavoriamo da casa e usciamo solo per fare la spesa o una breve passeggiata*, che valore ha il tempo, oggi? 

In questi giorni di isolamento, ci ritroviamo inaspettatamente a casa  con un sacco di tempo a disposizione. Essere costretti a rimanere fra le mura domestiche ci costringe a fare i conti con noi stessi, col tempo di cui ci lamentiamo sempre di non avere abbastanza e che finalmente potremmo sfruttare come si deve. 

Milano
Non importa come. Un aperitivo su Skype, una telefonata ai nostri genitori lontani, un libro che ci aspetta da mesi sullo scaffale: chissà quante cose stiamo scoprendo, in questi giorni. E magari chissà quante altre stiamo invece scoprendo di essere. 

Usciamo sui balconi e scopriamolo. Cantiamo una canzone come se fossimo davanti a un falò, urliamo il nostro inno come se ci fossero già le partite della Nazionale alle porte. Non c'è nulla da festeggiare, è vero. Però c'è da rimanere vivi. 

È il momento di dare il giusto valore al tempo che abbiamo. Così come al silenzio che la frenesia di tutti i giorni ci impedisce solitamente di ascoltare. Abbiamo il dovere di tirare fuori il lato positivo di questa strana situazione. Il senso di unità che ci contraddistingue, la ricerca di condivisione, la voglia di raccontare e di raccontarci. 

È l'unico modo per dare il nostro contributo in questo momento. E quando tutto questo sarà passato, avremo un altro grande dovere: ricordarci di questi momenti. 

* perché è per questo che state uscendo, vero? Se non fosse così... rimanete a casa, stronzi! 


mercoledì 6 novembre 2019

Apologia dell'ignoranza

L'astensionismo dei partiti di destra di fronte all'istituzione della Commissione Segre contro odio, razzismo, antisemitismo e discriminazione. Gli ululati - gli ennesimi - a Mario Balotelli durante Verona-Brescia di domenica. Da un lato la politica, dall'altro il calcio. In mezzo l'ideologia che si fa beffe della memoria storica e occupa gli spazi dello sport. 




Sono giorni a dir poco difficili, quelli che stiamo vivendo. Difficili perché di fronte a un tema che dovrebbe unirci, come dovrebbe essere la lotta alla discriminazione, ci troviamo divisi più che mai. Difficili perché quando la storia viene messa in discussione e l'evidenza ridotta a mera opinione, ciò che ci aspetta non può essere altro che preoccupazione per il nostro domani. 


In questi giorni abbiamo scoperto - o meglio, ci siamo purtroppo resi davvero conto - di quanto non si possano più dare per scontati valori come la democrazia e il rispetto. L'attualità di queste ore ci fa leggere di politici che minimizzano la gravità di insulti razzisti contro un giocatore di colore (per alcuni sarebbe più corretto dire negro); di capi ultras che inneggiano a Hitler, "che sì, si è macchiato di colpe gravi ma meno di quelle della democrazia"; di capi ultras che al tempo stesso sono anche esponenti politici di estrema destra e che "sì, Balotelli ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai essere completamente italiano". Perché non è bianco, è ovvio. Anche voi su, che domande fate? 



In questi giorni abbiamo scoperto - o meglio, anche qui sarebbe meglio dire che ci siamo davvero resi conto - che la testimonianza vivente di una sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti ha un valore poco più che relativo. "Sì beh, per carità, siamo vicini a quella lì - com'è che si chiama? - però basta demonizzare tutto e tutti con questo velo sottile di vittimismo, è passato tanto tempo dai", sembra di sentire parafrasando alcuni. 


In questi giorni abbiamo scoperto - anzi, anche qui è doveroso dire che ci siamo davvero resi conto - quanto manchi una vera presenza istituzionale. Invece che rassicurazioni e condanne, dalla politica sono arrivate rivendicazioni di danni d'immagine e denunce orwelliane alla libertà d'espressione. Balotelli, oggetto di cori e insulti razzisti, è stato accusato di diffamare la città di Verona e rischia addirittura una denuncia. Liliana Segre, sopravvissuta all'orrore del nazismo, non ha ricevuto solidarietà piena e unanime dai colleghi senatori in Parlamento. La vittima che diventa carnefice. 

Photo Credit: ANSA 

È come se oggi la moda del momento fosse quella di sdoganare il paradigma buonista del "siamo tutti uguali a prescindere da colore della pelle, religione e bla bla bla". Sì insomma, roba da buonisti, appunto.  

"Che noia, questo buonismo. Che noia sentir parlare continuamente di negri da salvare perché affogano in mare. Ecchepalle questi che appena dai del mangiabanane a uno di questi qui ti vengono a dire su, che sei razzista, che sei disumano. Ma andate a fanculo, salvateli voi"



Non le sentite anche voi queste voci che aleggiano nell'aria? Sì lì, proprio sopra le nostre teste, mentre sussurrano alle nostre orecchie. Non lo leggete anche voi, questo odio, negli sguardi delle persone, nei loro ghigni sottili? Non lo leggete anche voi, questo odio, mascherato dietro alla parola goliardia

"Ma sì, dai. Ti pare che adesso ci mettiamo ad accogliere tutti? Che ci mettiamo a questionare se una svastica o un braccio teso sono o no apologia del fascismo e del nazismo? Se dire o non dire negro sia o meno discriminatorio? Cos'è, ci mettiamo anche a fare le Commissioni in Parlamento su 'ste cazzate? Ma dai, ecchepalle!"


Non vi sentite anche voi, come dire... spaesati di fronte a tutto ciò? Di fronte a questo relativismo per cui tutto è degno di essere pronunciabile in nome della libertà di espressione? E invece diciamocelo che no, non è vero, che non può valere per il razzismo. Che non può valere per il fascismo. Che non può valere per il nazismo. Che non può valere per l'odio.  

Diciamocelo che tutto questo è semplicemente ignoranza. Di quelle pericolose. Di quelle di cui oggi si fa una schifosa apologia.


***

razzismo Concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze. È alla base di una prassi politica volta, con discriminazioni e persecuzioni, a garantire la 'purezza' e il predominio della 'razza superiore'. 

òdio  Sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui; più genericamente, sentimento di profonda ostilità e antipatia. 

[Treccani]

sabato 2 novembre 2019

Due chiacchiere sull'Amazzonia con don Claudio Pighin


Missione, inculturazione, ecologia integrale, difesa dei popoli indigeni, rito amazzonico, ruolo della donna e nuovi ministeri. Sono questi i temi emersi durante il recente Sinodo sull'Amazzonia e ricapitolati nel Documento finale prodotto. Un documento che definisce la Chiesa "alleata dell'Amazzonia", una terra che sta vivendo un momento storico particolare, sia dal punto di vista ambientale che da quello politico. Una terra che ci sembra lontana, ma la cui attualità non è così distante dalle problematiche che siamo chiamati oggi ad affrontare. 

Di Amazzonia parlo con don Claudio Pighin, nato a Zoppola (in provincia di Pordenone) nel 1952, che in quei Paesi “lontani” ci ha vissuto in missione per ben quarant’anni. Oggi è parroco a Pordenone, ma quando ci parlo per la prima volta non posso che notare come il suo accento sia tutt’altro che pordenonese. 



Don Claudio, come è nata la sua vocazione alla consacrazione? 

A undici anni sono entrato nel Seminario di Pordenone e poi nel seminario teologico di Monza del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere). Fin da bambino ho sentito il grande desiderio di essere missionario per servire quelli che avevano bisogno nelle terre di missione. Nella mia testa era fisso questo desiderio di servire quelli che soffrono oltre Oceano.

Quali sono state le attività svolte durante la sua attività missionaria? 

Sono partito per l’Amazzonia brasiliana all’età di 26 anni, appena ordinato sacerdote. Ho girato abbastanza l’Amazzonia e dedicato molto del mio tempo all’educazione. Ho fondato la scuola di comunicazione ‘papa Francesco’ che si rivolge esclusivamente ai giovani poveri del Pará e Amapá, alle foci del Rio delle Amazzoni. Una scuola quindi gratuita che dà un diploma tecnico. Vogliamo aiutare i giovani a diventare protagonisti della società.

Cosa le viene in mente quando si parla di Amazzonia?

Da missionario che ha vissuto per ben quarant’anni nell’Amazzonia brasiliana, posso testimoniare l’importanza di discernere la volontà di Dio e come si riesce o meno a vivere il Suo progetto. Dio ha consegnato al patrimonio umano una terra ricca di foresta, di acque, di flora, fauna, ma i popoli che la vivono, soprattuto gli indios, stanno soffrendo e non riescono a vivere in armonia con la propria natura. 

Quali sono, a suo avviso, le cause di questa sofferenza?

I grandi progetti che si sono installati in questa terra verde, apparentemente sembrano un progresso di vita, ma in verità sono diventati una minaccia per l’equilibrio della vita di quei popoli. Quante persone, le più vecchie, mi hanno detto: “Padre, prima, quando eravamo ben giovani, avevamo tutto; non ci mancava pesce, caccia, frutta, açai, farina di mandioca, galline e ora invece queste cose ci mancano sempre di più. Padre, tutto è cambiato, soprattutto da quando hanno fatto le prime strade. La nostra vita ora non è più tranquilla e serena. Allora non avevamo documenti di proprietà, ma tutti ci capivamo e ci rispettavamo. Ora che sono arrivati i grandi progetti tutto è cambiato e persino tra di noi non siamo più gli stessi” 

Qual è il contributo che può dare l’attuale Sinodo sull’Amazzonia? 

La vita degli amazzonici è la testimonianza dei cambiamenti radicali della vita in Amazzonia. Hanno perso il loro habitat del passato per vivere una nuova realtà che non è più loro. Per questo, la Chiesa non può evangelizzare se non ascolta il clamore dei popoli che là risiedono. Come una madre che si preoccupa per il figlio, così la Chiesa si preoccupa per i popoli dell’Amazzonia. L’amore della Chiesa la rende più vicina a loro per difenderli e aiutarli. Il Sinodo è una risposta di amore anche per quei figli e figlie che sono in Amazzonia.

lunedì 25 marzo 2019

Gerusalemme, ombelico della fede

Affascinante. È il primo termine che viene in mente osservando Gerusalemme dall'alto, fuori dalle mura della Città Vecchia. Quella che è divisa in quattro quartieri, le quattro identità che compongono una città che probabilmente della sua vera identità è ancora alla ricerca. Il quartiere musulmano a nord-est, quello latino (cristiano) a nord-ovest, quello armeno a sud-ovest, quello ebraico a sud-est, vicino al monte del tempio. Quattro quartieri per quattro identità: divise, conflittuali, eppure in costante relazione. 



La si guarda da lontano, Gerusalemme, e sembra quasi un quadro. La Cupola della Roccia - dorata e imponente alla vista - a sud, il Cenacolo a ovest, la Basilica della Dormizione a nord-ovest. E poi il Pinnacolo del tempio, quell'angolo a sud-ovest delle mura dove il diavolo tentò Cristo. Sembra quasi di vederla, la scena. E poi la valle della Geenna, la valle a sud-ovest della città dove ai tempi di Cristo si bruciavano i rifiuti. 

Sembra un quadro, Gerusalemme, e quando ci si entra sembra di entrare in una storia e nella Storia. I vicoli stretti, i negozi di souvenir ammassati l'uno addosso all'altro, i chioschetti  con il succo di melograno, le insegne dei quartieri, a simboleggiare il cambio di identità e cultura appena ci entri. Come se la città ci tenesse a rimarcare le molte differenze che la compongono. E in effetti è così. Ognuno sottolinea la propria, di identità. La propria appartenenza, la propria fede, il proprio pezzetto di giurisdizione. Il modo di vestire, il modo di guardare, il modo di parlare: tutto si mostra, a Gerusalemme. 

Si può respirare il mix di culture, di differenze, di contraddizioni. Di sospetti, come quando la vista dello straniero genera diffidenza e anche sdegno. C'è chi sputa per terra, al suo passaggio. Semplicemente perché appartenente a un credo diverso. C'è anche chi lancia qualcosa addosso a chi non è gradito, come una bottiglia d'acqua piena alle spalle. Ma come ogni forza c'è ne è un'altra uguale e opposta che cerca strada: il dialogo cerca di farsi spazio nonostante tutto, cerca il confronto e la condivisione di una ricchezza intrappolata nella rigidità delle differenze e di una storia - politica e culturale - che non ha mai smesso di ribadirle. 


È un ombelico, Gerusalemme. Dal quale fuoriesce il concentrato delle confessioni cristiane, delle religioni monoteiste, delle faide storiche e politiche. Ma anche nel quale molto converge: la sete di conoscenza, la continua ricerca dei fedeli di tutto il mondo, la bellezza di un territorio pieno di storia, la speranza di una soluzione territoriale che possa finalmente dare pace e convivenza a questa molteplicità.



È un ombelico, Gerusalemme. Città densa, conflittuale, ma affascinante. Già, affascinante. Un termine che ha aperto queste righe e che al tempo stesso le chiude, senza però una conclusione. Perché è proprio nel suo fascino, nella sua ricchezza, che Gerusalemme ci dice che è un luogo che non finirà mai. 

venerdì 28 dicembre 2018

Lo stadio chiuso è una presa in giro. Il razzismo si combatte con cultura ed educazione

Il fatto è uno di quelli già visti e sentiti: durante una partita di calcio un giocatore di colore, dalla pelle nera, è vittima di ululati razzisti da una parte dei tifosi di casa. Lo speaker dello stadio invita a non rivolgere frasi, cori e qualsiasi espressione possa essere definita razzista, ma invano. La partita finisce e inevitabilmente la questione è - giustamente - materia di discussione mediatica.


Photo Credit: Repubblica.it

Il giorno dopo il giudice sportivo decide di chiudere le porte di San Siro per la gara di Coppa Italia Inter-Benevento e per quella di campionato Inter-Sassuolo, con chiusura della Curva Nord, il settore caldo del tifo interista, per Inter-Sampdoria.

Che questa non sia una soluzione al problema, beh, è evidente a chiunque. Pensare di risolvere la questione degli ululati razzisti chiudendo lo stadio è semplicemente una soluzione miope, una non-soluzione. Usare il pugno duro contro chi il pugno duro lo utilizza come stile di vita è un provvedimento che non ha mai portato a un miglioramento della situazione. E la dimostrazione è il ripresentarsi cronico del problema.

A uscirne vittime, oltre al povero Koulibaly, sono tutti quei tifosi degni di questo nome che non potranno andare allo stadio nelle prossime due partite. Tutti quegli abbonati che allo stadio ci vanno per passione e non per ignoranza. Tutte quelle famiglie che del calcio fanno un motivo di festa e non una questione razziale.

Il risultato sarà vedere uno stadio vuoto senza sciarpe, colori, bandiere ed esultanze per un gol. Uno stadio in silenzio. A uscirne sconfitti saranno ancora una volta il calcio e lo sport. Saranno le istituzioni sportive, incapaci di trovare una soluzione a un problema che non nasce certamente con Inter-Napoli.

L'ignoranza di pochi ha così la meglio sul diritto di molti di vivere la propria passione sportiva. Ignoranza che, è bene ricordarlo, si combatte tramite la cultura e l'educazione. Aspetti che molte istituzioni - o presunte tali - ignorano per prime. Magari facendosi fotografare con quegli ultras che poi in televisione e su Facebook si condannano perché violenti o razzisti.

L'ignoranza di chi va allo stadio per insultare nulla ha a che fare con lo sport. E chiudere uno stadio altro non sarà che dare maggior forza a chi ha così il potere di impedire la celebrazione di un evento sportivo e di ricattare di conseguenza la propria società di calcio.

Il processo è semplice. Chiudi lo stadio, il club paga la multa e perde l'incasso per un certo numero di partite e quando lo stadio riapre si ritrova dentro gli stessi tifosi in grado di tornare a intonare ululati e cori razzisti. E allora al club non rimane che trattare con questi tifosi - o meglio, delinquenti - legittimandoli di conseguenza come interlocutori. 

Qual è la soluzione? Scopiazzare Inghilterra e Germania sarebbe un buon punto di partenza. Qualcosa si è già fatto - come tornelli all'ingresso e steward allo stadio - ma evidentemente non abbastanza. Margareth Thatcher combatté la violenza degli hooligans con norme severe: niente posti in piedi, niente alcol, telecamere di sorveglianza già ai tornelli d'ingresso e addirittura carceri all'interno dello stadio. In più, per i club, la possibilità di bandire a vita i tifosi dallo stadio

Il Taylor Report è un elenco di provvedimenti rigidi grazie a un altrettanto controllo rigido da parte della polizia. La presenza degli steward è fondamentale, ma non sono assolutamente sufficienti e competenti per garantire l'ordine contro la violenza negli stadi. Lo stesso accade in Germania, dove il servizio di polizia viene pagato anche dai club di calcio. Aspetto già proposto qualche anno fa ma che non ha trovato terreno fertile fra le istituzioni sportive e i club. 

La soluzione dello stadio chiuso è una presa in giro. È semplicemente l'incapacità di risolvere un problema molto più complesso che non si ha voglia - e forse nemmeno l'interesse - di risolvere. Parlare di "provvedimenti esemplari" e di "senso di responsabilità", espressioni che fioccano sulla bocca di molti in questi casi, non serve a niente senza decisioni intelligenti. 


giovedì 11 ottobre 2018

Attacco a L'Espresso e Repubblica, l'infelice uscita di Di Maio


La diretta Facebook in cui Luigi Di Maio qualche giorno fa ha attaccato i giornali, in particolare L'Espresso e Repubblica, è stata una mossa a dir poco azzardata. Diciamo pure infelice. Con l'intento di alimentare la narrazione dei giornali produttori di fake news - termine da un po' di tempo ormai di moda, che potrebbe benissimo essere definito con la parola disinformazione - il Vicepremier e Ministro del Lavoro altro non ha ottenuto che un effetto boomerang sul Governo legastellato. 




I tempi di uscita del suo attacco non sono stati i migliori, visto il momento delicato fra spread, def e condono (o come lo chiama il governo, pace fiscale). Temi delicati, tipici di ogni mandato esecutivo che si trova inevitabilmente a dover affrontare bilanci economici nella fase successiva a quella propagandistica. Insomma, a fare i conti per mettere in pratica quanto promesso in campagna elettorale. 

Ma vista la difficoltà a tenere in piedi il proprio esecutivo, fra gaffe e conti che fanno fatica a quadrare, il governo altro non può fare che continuare a percorrere la strada della propaganda, in quella che è comunemente definita campagna elettorale continua. Come bene ha spiegato Marco Damilano, direttore de L'Espresso, in questo editoriale, Salvini e Di Maio hanno bisogno di un capro espiatorio perenne contro il quale scagliare l'indignazione dell'opinione pubblica. 

Per il leader della Lega si alternano l'Europa e gli immigrati, per Di Maio i giornali, produttori di quelle fake news malevole per destabilizzare il governo del cambiamento che tanto bene vuole fare agli italiani. Ma se gli immigrati hanno poco potere per difendersi - e le dichiarazioni dell'Europa sono facili da far apparire come lontane e retoriche - attaccare i giornali ha un peso decisamente diverso. 

Dopo la diretta Facebook non sono tardate le risposte a Di Maio. Oltre al già citato Damilano, non si è fatta attendere la replica di Mario Calabresi: "Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità", il titolo dell'editoriale del direttore di Repubblica. Che ha sottolineato: 

Siamo un giornale di opposizione, è vero, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l'Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l'incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni.

In particolare L’Espresso non ha risparmiato articoli molto duri con il governo, specialmente con il Movimento 5 Stelle. Dalla gaffe del Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli sul tunnel che sarà pronto nel 2025 allo stesso Di Maio che ha alloggiato in un hotel di lusso nel suo viaggio in Cina - alla faccia del biglietto aereo in economy sbandierato sull’amato Facebook. Fino all’acquisto degli F35, i tanto odiati aerei di Renzi che una volta tagliati avrebbero permesso il risparmio necessario per il reddito di cittadinanza e che invece sono stati confermati fra le spese militari. 

L’attacco di Di Maio alla stampa ha scatenato inoltre anche la reazione dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). Giuseppe Giulietti, presidente di quest’ultima, non ha usato mezzi termini: “L’aggressione alle testate del gruppo Gedi non riguarda solo quei giornali ma è un cazzotto sferrato al diritto dei cronisti di informare e a quello dei cittadini di essere informati. È intollerabile”. 

Nella gara al consenso tutta interna con la Lega di Salvini, Luigi Di Maio ha scelto il suo nemico. Forse quello sbagliato. 

venerdì 21 settembre 2018

Conte, Salvini, Berlusconi. Quando la sfera religiosa incontra la politica

"Unto del Signore", "Uomo della Provvidenza", "in odore di santità". Sono alcune delle espressioni che Silvio Berlusconi, nel corso del sua storia politica, si è attribuito per descrivere il suo ruolo politico-ma non solo. Espressioni con un chiaro riferimento alla sfera religiosa - e che potete trovare riassunte qui - che hanno fatto di Berlusconi una sorta di "Gesù della politica", per usare un'altra metafora religiosa pronunciata dal Cavaliere. Un uomo investito di un mandato divino, una guida politica ma allo stesso tempo un modello esemplare, al limite dello spirituale, da seguire.

Photo Credit: Libero Pensiero 

I manuali di comunicazione e leadership politica hanno analizzato e approfondito a più riprese il ruolo delle dimensione religiosa e spirituale nella leadership politica. Una dimensione in grado di coinvolgere l'elettore/cittadino, portandolo ad essere quasi - se non proprio - un adepto/seguace del suo leader. Un modello che Berlusconi ha cavalcato a più riprese nelle sue campagne elettorali. E a questo proposito molti ricorderanno Una storia italiana, il libretto-opuscolo spedito per posta agli italiani alla vigilia del voto del 2001. L'incontro con Giovanni Paolo II, il titolo "la traversata del deserto" a ricordare le tentazioni subite da Cristo da parte di Satana per quaranta giorni, il vestito bianco a simboleggiare la purezza. Berlusconi viene dipinto come un santo, un eletto.

Il marketing politico - e la sua narrazione religiosa - in questo senso è stato favorevole a Berlusconi nel colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana, avvicinando in particolare l'elettorato cattolico alle posizioni di Forza Italia. Un vuoto che persiste ancora oggi in questo segmento di elettorato, spaesato nella direzione da seguire e nell'offerta politica poco allettante.

Vuoto che sta cercando di colmare il governo legastellato. Il primo è stato Matteo Salvini, che nell'ultima campagna elettorale ha sbandierato in Piazza Duomo a Milano rosario e Vangelo, a sottolineare e rivendicare quell'appartenenza ai valori cristiani che oggi, latitante e trascurata, rappresenterebbe la crisi identitaria italiana. Al netto della crisi di valori (innegabile), l'uscita da difensore pubblico della religione cristiana a pochi giorni dal voto altro non è stata che una (discutibile) mossa acchiappa-voti, un amo gettato a quelli che "vedi, lui sì che non ha paura di mostrare la sua fede".



Mossa che è stata seguita dal premier Conte, che in un'intervista rilasciata a Bruno Vespa si è reso protagonista di una gag nella quale ha espresso tutta la sua devozione per padre Pio, con tanto di santino tirato fuori dalla giacca. I riferimenti a Paolo VI e a Aldo Moro hanno fatto il resto, nella costruzione della narrazione ideale per l'elettore cattolico medio.




Se Berlusconi esagerava un tantino nel suo paragonarsi a Dio - e più che sull'ego del Cavaliere qui bisognerebbe riflettere più sull'ingenuità di chi lo ha osannato davvero come un Messia - Salvini e Conte altro non hanno fatto che applicare le regole del marketing politico per raggiungere una parte di elettori. 

Ciò che viene da chiedersi è cosa cerchino e debbano cercare i cattolici nella politica, oltre a cosa aspettarsi da essa. Nella speranza che, noi cattolici - e sottolineo il noi - sappiamo andare oltre. Magari virando sui contenuti, più che su un santino o un rosario sventolati in aria.